Henri Cartier-Bresson

E’ in assoluto il più importante punto di riferimento della fotografia XX secolo.

Maestro per generazioni di fotografi, citato continuamente come esempio sia per le sue immagini che per le sue teorizzazioni sulla fotografia.

Francese, figlio di una ricca famiglia di imprenditori tessili mostra inizialmente un grande interesse per la pittura.

Frequentò i gruppi di intellettuali surrealisti ed in particolare uno dei principali teorici di questo movimento, André Breton.

Poi improvvisamente decide di andare in Africa dove rimane per circa 2 anni e dove si arrangerà a far di tutto per sopravvivere.

Rimane gravemente malato a causa di batterio ed una volta guarito decide di fare ritorno in Francia.

Viene colpito da una fotografia del fotografo Martin Munkacsi che ritrae tre ragazzi intenti a tuffarsi nel lago Tanganica in Congo.

“...non riesco ancora a capacitarmene! Che forza plastica, che senso della vita: il bianco, il nero, la schiuma! Ero assolutamente travolto!”

Forse è in quel momento che vede nel mezzo fotografico il suo modo di esprimersi e in cui decide di diventare un fotografo.

Robert Delpire affermò a proposito di questa foto: “Non si può dire che HCB sia stato influenzato da altri fotografi. Ma sì, Munkasci, Kertész… Ha avuto colpi di fulmine, come tutti. Cita sempre la fotografia di Munkasci, quella dei tre adolescenti neri che si lanciano verso le onde, visti di schiena, senz’altro un’immagine molto bella e la sola che abbia sempre tenuto appesa nel suo studio; Ma tutti i suoi riferimenti sono pittorici, è evidentissimo!“.

HCB: “Come molti bambini avevo avuto una Brownie-box, ma me ne servivo soltanto per riempire dei piccoli album con i ricordi delle vacanze. Solo molto più tardi ho cominciato a guardare attraverso la macchina fotografica: il mio piccolo mondo si allargava e fu la fine delle foto di vacanze“.

Compra una Leica 35mm ed inizia a viaggiare nel sud della Francia, Spagna, Italia e Messico.

Al rientro da questi viaggi inizia delle collaborazioni cinematografiche.

Cresce così la sua fama di fotografo anche grazie al suo nuovo modo scattare le fotografie in cui condensa tutta la propria filosofia del “momento decisivo”.

Durante la seconda guerra mondiale viene catturato dai nazisti ed imprigionato. Tenta la fuga per ben tre volte e quando finalmente riesce a liberarsi apprende che a New York stavano organizzando una sua retrospettiva poiché lo consideravano scomparso in battaglia.

E’ così che decide di recarsi personalmente a New York e comparire all’ inaugurazione della mostra.

Nel 1947 fonda, insieme ai suoi amici Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert, la Magnum photos, una cooperativa di fotografi.

Continua a viaggiare toccando paesi come Cuba, India e Giappone.

Muore a Parigi il 2 agosto del 2004.

Ferdinando Scianna, amico di HCB, ci racconta di lui:

“.…la sua cosa era il tiro, come diceva lui, la macchina fotografica è questo orgasmo improvviso difronte alla realtà che prendeva un certo andamento, si disponeva in certe forme per le quali lui, come ogni fotografo che dopo di lui ha seguito le sue orme, considerava che quello fosse l’istante giusto per schiacciare il bottone sperando di cogliere questo istante che genera la forma e questa forma che produce il senso dell’istante, quella era la cosa! Lì era ossessivo, lì considerava che nessuno potesse scegliere le sue fotografie perché la scelta della fotografia, di quell’immagine tra tutte le altre, spettava al fotografo.”

Scrive di lui Jean Pierre Montier:

Sempre fedele ad una visione veloce ed alla ricerca dell’immagine rubata, teorizzò la poetica del momento decisivo per catturare un’immagine unica e irripetibile e sintetizzare il vissuto delle persone fotografate, secondo una visione ispirata alla filosofia zen del tiro con l’arco. Autodefinitosi per questo il “fotografo-arciere“.

HCB: “Per quanto mi riguarda, fotografare è un mezzo per comprendere, inseparabile dagli altri mezzi di espressione visiva. Equivale a urlare, a liberarsi, non è un modo per provare o affermare la propria originalità. E’ un modo di vivere.”

La macchina fotografica è un prolungamento del suo essere: “Dimentico la macchina fotografica allo stesso modo in cui una brava dattilografa dimentica i suoi tasti.”

Cosa rende buona una fotografia?

E’ una questione di millimetri, di essere qui, o là. C’è una lievissima differenza tra una buona ed una brutta fotografia. Sono piccole differenze, piccolissime.”

Bisogna essere lucidi, concentrarsi. Il pittore ha un’intuizione, può correggerla. per noi, niente ritocchi, niente banalità. Bisogna essere vivi! E’ la vita ad essere appassionante: occorrono sensibilità e disciplina intellettuale, nient’altro. Curiosità per la vita e rigore plastico.”

La fotografia è la concentrazione dello sguardo. E’ l’occhio che sta sul chi vive, che guizza instancabilmente, sempre a caccia, sempre pronto. La fotografia è disegno di getto. E’ domanda e risposta.

La foto sopra è una delle prime scattate con la sua Leica 35mm a Bruxelles e raffigura due uomini intenti a curiosare attraverso un telo di protezione.

Per quanto riguarda la luce e l’utilizzo del flash, HCB dice: “Soprattutto niente flash! Non è quella l’illuminazione della vita. Io non lo uso mai, non voglio usarlo. Restiamo nel reale, restiamo nell’autenticità. Perché l’autenticità è senz’altro la più grande virtù della fotografia.

HCB: “Il fotografo deve appostarsi, spiare la preda, prevederne i movimenti…..E quando è alla sua portata, rannicchiarsi per balzarle addosso.

Il suo approccio con i soggetti, con le persone oggetto dei suoi scatti può essere sintetizzato in queste sue parole:

C’è qualcosa di rivoltante nel fotografare la gente, è come uno stupro; se manca una certa sensibilità, può essere barbaro. Quello che è importante è la discrezione. Come l’artigliere, bisogna mirare giusto e sparare subito. L’aspetto ripetitivo è insopportabile. Si strappa qualcosa alla gente, e se loro non vogliono essere fotografati, bisogna rispettarli.”

E’ ossessionato dall’anonimato:

In Giappone, dove sui giornali il mio nome era Hank Carter, rimpiangevo di non avere gli occhi a mandorla per passare inosservato. E’ per questo che non voglio essere fotografato. Un giorno, in America, a Cape Cod, pioveva ed io ero appena uscito da una mia mostra al museo di arte moderna. Ero sotto una pensilina ed accanto a me c’era un gruppo di giovani. Quando ho tirato fuori la Leica uno di loro ha detto: Ehi! Guardate là uno che si crede Henri Cartier-Bresson! Mi sono messo a ridere.”

Nel libro di Russel Miller “MAGNUM” viene raccontato, tra i tanti, un episodio che riguarda Cartier-Bresson svoltosi alla morte di Ghandi.

Venticinque minuti dopo che il francese (HCB) aveva lasciato Birla House, Ghandi, aiutato dalle due nipoti, stava attraversando il giardino per andare a recitare le sue preghiere serali quando un giovane fanatico induista uscì dalla folla e gli sparò. Cartier Bresson venne a sapere la notizia appena arrivato in albergo. Si precipitò di nuovo a Birla House e si fece strada attraverso la folla impazzita fino alla stanza in cui il Mahatma giaceva morente. per rispetto, non se la sentì di entrare nella stanza, e scattò le fotografie con discrezione, attraverso le tende. La formidabile Margaret Bourke-White a quanto pare non ebbe gli stessi scrupoli: fece irruzione nella stanza, oltraggiando a tal punto i presenti che la inseguirono fuori per strapparle via la pellicola dalle macchine fotografiche. Quando i direttori di Life a New York seppero quello che era successo, che la loro migliore fotografa era stata superata da Magnum, uno di loro alzò subito la cornetta per chiamare l’ufficio Magnum di Parigi e acquistare i diritti delle foto di Cartier-Bresson.”


Marco e Domenico, fotografi, appassionati divulgatori, hanno deciso di condividere con voi le loro frequenti chiacchierate e straparlare in modo leggero di fotografia in un podcast.
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